La Sezione Enpa di Viterbo lancia un appello per fermare la caccia indiscriminata alla volpe, considerata “colpevole” per i danni alla fauna venatoria rilasciata per scopi di caccia. Una delle pratiche più crudeli è la caccia alla tana, dove i cani addestrati affrontano le volpi in scontri mortali.
“La caccia alla volpe in tana – afferma l’Enpa di Viterbo – è una pratica orribile. Cani appositamente addestrati entrano nella tana di una volpe e, incitati ed istigati dal cacciatore, ingaggiano un combattimento mortale con chiunque la occupi. La volpe, difendendosi, a sua volta ferisce i cani. Infine, stremata dalla lotta impari, la volpe muore azzannata, dissanguata, ed i cani, feriti, passano ad occuparsi degli eventuali cuccioli. Fermiamo questo scempio, questa atrocità”.
Ciò che accade nelle tane delle volpi assume rilevanza penale, in quanto configura il reato di maltrattamento di animale, con la violazione dell’art.544 ter e bis del Codice penale. Se un cucciolo viene sbranato, se un cane da tana risulta ferito, si possono configurare gli estremi per poter segnalare i responsabili all’autorità giudiziaria.
Analogamente, i danni causati dalla volpe devono essere chiaramente comprovati e certamente non possono limitarsi al possibile disturbo delle specie di interesse venatorio.
Inoltre attuare condotte che non sono espressamente previste e consentite dalla normativa speciale sulla fauna selvatica in tema di contenimento e che oggettivamente causano strazio e sevizie agli animali, può integrare il delitto di maltrattamento ed uccisione di animali.
I piani di abbattimento di volpi attuati durante il periodo riproduttivo mediante la modalità di caccia alla tana, con l’impiego di cani, paiono entrare appieno in tale seconda conseguenza.
Infatti seppur in teoria, ovvero sulla carta, tali piani dovrebbero prevedere in genere che i cani ‘specializzati’ si limitino a stanare gli animali nelle tane per poi farli sopprimere dai soggetti a ciò preposti a colpi di arma da fuoco, la realtà è logicamente del tutto difforme giacché la concreta attuazione di questa procedura prevede la morte degli animali spesso per sbranamento, nonché la morte dei cuccioli abbandonati nelle tane per inedia o anch’essi sbranati dai cani.
Non essendo consentita ai sensi della legge n. 157 del 1992 che disciplina la tutela della fauna selvatica in ambito nazionale, la morte degli animali per sbranamento o, peggio, per inedia dei cuccioli presenti nelle tane che lì potrebbero rimanere senza essere curati, qualora le femmine siano poi soppresse, è ipotizzabile il delitto di maltrattamento e uccisione con crudeltà non necessitati, in quanto le modalità con cui sarebbero uccisi gli animali, ovvero mediante caccia nella tana tramite cani, cagionerebbero illecite lesioni e danni alla salute degli stessi, in palese violazione di quanto disposto dalla normativa penale a tutela degli animali, art. 544 bis e 544 ter c.p., in quanto i cuccioli potrebbero essere o sbranati dai cani o, peggio, morire per inedia a causa dell’uccisione delle madri, in contrasto al dettato normativo di riferimento.
Le volpi, come qualsiasi altro animale selvatico, sono sempre in perfetto equilibrio con le risorse offerte dall’ambiente che le ospita. E’ chiaro quindi che la loro presenza è determinata in misura principale, dalla disponibilità di prede.
Se questa viene alterata da progetti di ripopolamento attuati ad esclusivo beneficio dei cacciatori, ne deriva, quale logica conseguenza, che il territorio possa poi ospitare un maggior numero di volpi. In ogni caso, qualunque progetto di ‘contenimento’ deve essere attuato nel rispetto della norma. La Corte di Cassazione, sin dal 2005 proprio con una sentenza in materia venatoria, ha chiarito che il maltrattamento è pienamente applicabile anche alla fauna selvatica, quando sono compiute condotte non espressamente previste dalla normativa di riferimento (legge 157 del 1992) anche se non sono espressamente vietate (Cassazione Penale, Sez. III, 21/12/2005 sentenza n. 46784, Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 6 – 26 marzo 2012, n.11606, Corte di Cassazione n 16497 28 febbraio 2013.