L'accordo di Parigi, centrato in prevalenza sulla questione dei combustibili fossili, lascia aperta la questione del massiccio contributo dell'agricoltura alla produzione dei gas serra, con il sistema degli allevamenti causa del rilascio in atmosfera di una percentuale di emissioni climalteranti compresa – a seconda delle metodologie di valutazione – tra il 18% e il 51% di tutte quelle riferibili alle attività antropiche.
Una responsabilità – questa – confermata dalla stessa Fao che da tempo prevede un incremento del 73% della produzione di carne entro il 2050. Porre in primo piano questa indiscutibile realtà, con l'adozione delle conseguenti strategie d'intervento, avrebbe reso l'intesa davvero forte e ambiziosa, e si sarebbe soddisfatto quell'elemento di differenziazione più volte dichiarato, cioè la responsabilità storica dei Paesi sviluppati per le emissioni inquinanti legate a uno stile di vita e di alimentazione devastanti che purtroppo stanno divenendo modello per il resto del mondo.
Infatti, è paradossale che da una parte si lavori, giustamente tanto, contro lo sfruttamento dei combustibili fossili e d'altro canto non si affronti adeguatamente la questione dell'impronta del carbonio legata alla filiera della carne.
«Ci troviamo dunque di fronte ad un accordo fondato su un approccio incompleto alle cause del riscaldamento globale, con la conseguente mancanza di una strategia esaustiva e complessiva. Colmare questo vuoto è possibile: non possiamo attendere soluzioni dall'alto – spiega Annamaria Procacci, che cura per Enpa i temi legati al tema dei cambiamenti climatici – ma ciascuno di noi fin da ora può e deve adottare comportamenti sostenibili, a partire dagli stili di vita e dalle abitudini alimentari, per fare massa critica e invertire così la corsa alla distruzione del pianeta, della nostra e di tutte le altre specie».